Il Demone 

Di Gaia Vitanza

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Non sarebbe bastata una manciata di parole scritte a macchina a cambiare le cose. Come se l’acqua bastasse a ripulire la sozzura di quella donna: il battesimo è riservato ai figli di Dio, non ai suoi carnefici. L’anima può trovare ristoro solo quando un’anima ce l’hai e il Demone, il Preside lo sapeva bene, non era altro che un involucro vuoto. Il male, aveva imparato, si cela spesso dietro il più mansueto dei sorrisi. 

Il rumore dei suoi tacchi che riecheggiava per il corridoio si era insinuato nella testa del Preside e ormai lo seguiva ovunque, lo sentiva rimbalzare tra le pareti del cranio, come un metronomo estenuante incollato ai suoi pensieri.  

La scuola, per lui, era sempre stata un giardino, il suo giardino. Un luogo rigoglioso, un terreno fertile ove crescere e far crescere, accompagnati dalla luce del sole. Era stato un insegnante di Lettere per molti anni, ogni mattina indossava una cravatta di seta, un completo 3 pezzi in tweed e le scarpe appena lucidate, e camminava tra quegli stessi corridoi, tra cui era stato uno studente brillante. Aveva visto alternarsi mode e pensieri, i visi dei suoi ragazzi erano stati levigati dal passare del tempo e ogni fibra del suo essere era sempre stata votata ad una sola missione: preservare il passato, proteggere il presente, plasmare il futuro. 

Era stata quasi una naturale evoluzione, divenire preside. Da cinque anni, egli si svegliava all’alba, inforcava gli occhiali, leggeva il giornale, mangiava qualcosa di fretta senza neanche sedersi e usciva per immergersi nella sua scuola, nei suoi ragazzi. Era una responsabilità tenere le redini di quella folla di adulti in potenza, ci voleva polso. Lui era la lama che radeva il giovane volto d’Italia, riportando l’ordine dove la barba incolta rischiava di prendere il sopravvento. 

Ex ducere. Condurre fuori. L’educatore è colui che, tenendo alta la fiaccola della conoscenza, fa emergere dall’oblio della pigrizia il talento dei ragazzi. Non che tutti i giovani ne abbiano uno. Il talento è cosa per pochi e, come tale, non è democratico. Il Preside, nel suo giardino, non accettava mele marce o rami ammalati. C’erano posti adatti per gente come loro: carceri, manicomi, le dignitose mura domestiche.  

La pietas era stata fraintesa e la gloria della cultura romana aveva ceduto al rammollimento della razza italica. Lo aveva visto con i suoi cani: bastava far riprodurre i deboli e le cucciolate sarebbero state destinate alla malattia e alla morte. Eppure, sembrava per molti un’idea radicale, così, all’inizio della carriera, si era limitato a tenerla per sé. Ora, finalmente, anche la scienza gli dava ragione e i governi si stavano mobilitando per arginare questa deriva. La modernità confermava quanto gli antichi avevano sempre sostenuto e applicato con rigore, dalla Kalokagathìa alla IV legge delle XII Tavole: cito necatus insignis ad deformitatem puer esto. “Pazzo” gli disse una volta un collega. Pazzo quanto Plutarco, Svetonio, Tacito e Tertulliano. Pazzo come Seneca nel suo De Ira, allora: «Soffochiamo i feti mostruosi, ed anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati e anormali, li anneghiamo, ma non è ira, è ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani». Saepe solet medici pietate putrescere vulnus

Non aveva mai ignorato una minaccia, ma, quando sui giornali si cominciò a parlare di razza ebraica, si accorse di aver tralasciato un pericolo. Quel pericolo strisciava come vermi, pronto ad insinuarsi tra i banchi di scuola, pronto a divorare l’arbusto della gioventù dall’interno. Avidità, tradimento, vigliaccheria, sete di potere. La malattia si era forse propagata in modo irreparabile? Dagli autori classici ai filosofi, fino a Marlowe e a Shakespeare, i libri che aveva letto migliaia di volte avevano tentato di avvisarlo per tempo sulla piaga degli ebrei, poteva solo biasimare la sua miopia. Miopia… Questo è il punto. Come si può aguzzare la vista al punto da riconoscere un cancro invisibile? Come si scova il traditore? 

La legge gli fu alleata. Alcuni ragazzini furono cacciati per via direttissima. Potevano anche fingersi innocenti e inondare i banchi di lacrime, aggrappandosi alla gonnella delle insegnanti troppo pietose, ma che non osavano protestare. I documenti, però, parlavano chiaro: ebrei. Il Preside si sentì il sangue gelare nelle vene. Erano tanti, troppi. Chissà per quanto tempo avevano mentito, per quanto tempo avevano profanato il latino con le loro bocche e quanto avevano storpiato la bellezza classica con le proprie menti contorte. Pensava di scolpire il marmo, invece si rese conto che, per molti anni, avevano impastato fango camuffato da roccia. La scuola aveva fallito, dando loro una mano a somigliare agli eredi di Roma, rendendo più complesso, ora, distinguerli. 

Un pensiero attraversò il Preside: non potevano essere solo gli studenti. Quanti insegnanti avevano snaturato la professione, insinuando elementi semiti in giovani menti facilmente plasmabili? A quali mani aveva affidato la migliore gioventù? 

La caccia ebbe inizio e il Preside li stanò come lepri ficcate nel terreno. Uno ad uno, li denunciò tutti. Il suo giardino doveva tornare pulito e le erbacce andavano estirpate.  

C’era una donna furba, troppo furba: il Demonio, coi suoi tacchi rumorosi e le ciglia lunghissime. La professoressa Calabrese era avvenente, capelli scuri, occhi penetranti, un naso prominente. Non era solo il corpo, però, a parlare. Aveva ribattuto ad ogni ordine, ad ogni esortazione di ragionevolezza. Aveva prestato le braccia alle lacrime fasulle di quei piccoli mostri, aveva alzato la voce sostenendo che quei banchi appartenevano anche a loro.  

Girava voce che, ad alcuni, avesse offerto un supporto, fuori dalle mura scolastiche. Era sensuale come una megera, agguerrita come un’Amazzone, arrogante come una blasfema. Una strega. Un’ebrea strega. Lo sapeva lei, lo sapeva il Preside. 

Non aveva gli strumenti per provarlo, però. Così aveva chiesto alla Questura di indagare. Risposero con poche righe, come fosse pazzo, come fosse paranoico. La signora è battezzata, i genitori lo sono altrettanto. Tanto bastava. La messinscena del Demone. Non per il cacciatore, non per il Preside. Avrebbe agito, con o senza l’appoggio della Questura: era sua responsabilità. 

La professoressa Calabrese spalancò la porta, come una valchiria. Aveva pianto, ma la dignità le calzava addosso come un abito da sera, la postura era eretta e fiera e, quali che fossero le ferite che la stavano consumando, non le avrebbe mai date a vedere. Non a lui. 

Rassegnò le sue dimissioni, lo guardò negli occhi per qualche minuto e si limitò a dire soltanto: 

«Demone.»  

«No», disse il Preside, ridendo di gusto. «Io sono un essere umano.» 

Ultima modifica: 13 Febbraio 2025