I fratelli Marmorari

di Francesca Gargano

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I fratelli marmorari. di Francesca Gargano

Il marmo è una pietra pregiata, dura e resistente, ma delicata e lavorabile. Da uno stesso filone possono essere estratti blocchi con venature differenti. Le categorie principali, tuttavia, sono due: i marmi bianchi e i marmi impuri. I primi brillanti ma costanti, i secondi variegati e imprevedibili. Così erano i due fratelli marmorari, Simone e Costantino: l’uno geniale e incostante, l’altro affidabile ma prevedibile. 

Simone aveva il respiro affannoso. Sin da bambino aveva inalato polveri di marmo che gli avevano compromesso i polmoni in maniera irreparabile e le cure a cui era stato sottoposto non avevano sortito alcun risultato. Tutto era iniziato con un semplice colpo di tosse, ma, con il tempo, Simone era diventato sempre più debole. La malattia lo aveva anche trasfigurato: era magro e sembrava ancora più vecchio. Il viso era pallido e le mani raggrinzite. 

Costantino aveva cercato di aiutarlo in tutti i modi possibili. Quando aveva capito che non c’era più nulla da fare, aveva intensificato le visite al fratello con frate Gerardo, il nuovo priore della Santissima Trinità, confidando nel conforto delle preghiere. Costantino era da sempre stato molto incline a fare amicizia con i frati. Simone non riusciva a simpatizzare per loro allo stesso modo: per lui erano solo affari, mentre Costantino allacciava legami fraterni con tutti loro. Simone, d’altronde, non era pio e devoto come il fratello: si era fatto un nome e aveva sempre cercato di non farsi mancare niente. Il gioco d’azzardo e il vino erano i suoi punti deboli: la sua malattia era forse la punizione divina per il suo vivere da peccatore? 

La loro attività di marmorari si era impiantata a Palermo grazie al loro padre Andrea. Giunto dalla Siria con la moglie incinta e due figli piccolissimi, era riuscito subito a trovare lavoro nella costruzione di un grande palazzo residenziale. Dal carattere forte ma generoso, Andrea era entrato presto nelle simpatie di molti.  

La città li aveva dunque accolti a braccia aperte ed ora, fra quelle stesse braccia, la vita di Simone si stava spegnendo. Il grande successo della loro attività era dovuto al suo intuito e alle sue abilità nella lavorazione di blocchi di marmo di qualsiasi dimensione. Costantino andava dicendo in giro che suo fratello aveva la testa dura come la pietra perché pensava come il marmo o era il marmo stesso a leggergli nel pensiero. Lo stesso Costantino, seppure abilissimo nella lavorazione, non aveva quella genialità che caratterizzava il fratello. Tuttavia, aveva creato una vasta rete di contatti che gli permetteva di essere al corrente di tutti i cantieri a Palermo e dintorni. In più, da molti anni era legato da una forte amicizia a Matteo d’Aiello, il cancelliere. Grazie a lui, erano riusciti a partecipare al cantiere del grande chiostro del borgo di Monte Reale. Subito dopo, avevano preso parte alla costruzione dell’intero complesso della Santissima Trinità a Palermo, dal monastero al chiostro.  

Il loro marchio di fabbrica erano i capitelli dal carattere classicheggiante. Proprio su un capitello, uno di quelli di Monte Reale, Romano, figlio di Costantino, aveva inciso il suo nome Romanus, lasciandosi sedurre dal fascino del latino. Le origini della famiglia andavano, d’altronde, ricercate nell’Oriente islamico: tutti loro sapevano parlare e scrivere in arabo e in greco. Romano, consapevole che il latino stava ormai prendendo il sopravvento sulle altre lingue, aveva invece voluto affidare il suo nome all’aeternitas

Simone abitava in un vicoletto ai confini nord-occidentali della città antica, nella casa che era riuscito a costruire il padre tanti anni prima. Era una grande casa calda, accogliente e luminosa, con un giardino ben curato e sempre piena di gente che andava lì a far festa. Ma la cosa che più di tutto apprezzava Simone era la distanza dai frati amici di Costantino, che invece si era fatto costruire una casa ad est, proprio nei pressi della chiesa della Santissima Trinità. Pure se grande e funzionale, l’abitazione di Costantino era austera e sobria, tanto che Simone la definiva “una grande cella di convento”. Avevano anche una prestigiosa bottega e un grande appezzamento di terreno fuori città, verso sud-est.  

Quando lasciava casa del fratello, Costantino amava passeggiare fino al monastero che la nobile ed affabile Eloisa Martorana aveva fatto costruire pochi anni prima insieme al marito. Quel monastero sorgeva in un’area al confine della città dove, da piccolissimo, Costantino aveva visto realizzare, accanto alla chiesa di Santa Maria dell’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, un grande palazzo con una cappella al suo interno. Aveva seguito ogni fase, dallo scavo delle fondamenta alla realizzazione delle coperture, e ad ogni blocco e ad ogni trave aveva promesso a sé stesso che un giorno anche lui avrebbe partecipato alla costruzione di un edificio tanto grande e tanto importante.  

Costantino arrivò poco prima che Simone esalasse l’ultimo respiro. Non avevano più molto da dirsi: avevano vissuto insieme ogni giorno della loro vita, lavorando fianco a fianco. Avevano dovuto superare insieme la perdita precoce dei genitori e Costantino aveva anche dovuto sopravvivere alla perdita del figlio. Simone guardò per l’ultima volta il fratello, esprimendogli il suo appoggio, qualsiasi decisione avesse preso per gli anni a venire e per la loro eredità: se ne andava senza rimpianti, avendo vissuto una vita piena di soddisfazioni e traguardi raggiunti.  

Un ultimo sguardo al fratello e gli occhi di Simone si chiusero per sempre. Costantino trattenne il respiro per diversi istanti, dimenticando lui stesso di respirare. Guardava l’uomo a fianco del quale era cresciuto, colui che gli aveva insegnato tutto sul marmo e che ora sembrava lui stesso scolpito nella pietra: immobile, con la pelle levigata e bluastra, un fisico che ormai conservava solo il lontano ricordo della forza e della prestanza fisica. 

Qualche giorno dopo la morte del fratello, Costantino andò con alcuni amici da Goffredo il tabellione. Era noto che tale Goffredo sapesse redigere in latino documenti difficilmente falsificabili, curati e raffinati proprio come quelli dei re e dei papi: in lui i cittadini riponevano grande fiducia. Giunsero anche i nipoti, Tommaso e Marina, l’amico Pietro Dolce di Monte Reale e altri conoscenti.  

Alla presenza di tutti, Costantino dichiarò che, per la salvezza della sua anima e di quelle di Simone e dei loro genitori, avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita a servizio di frate Gerardo e dei suoi successori e che tutti i suoi beni mobili ed immobili sarebbero andati all’ospedale di Santa Maria dei Teutonici, gestito dagli stessi frati per accogliere i pellegrini. I presenti sottoscrissero il documento in latino, Tommaso in arabo e Marina in greco. 

Quella sera, prima di rientrare a casa, Costantino camminò fino al porto della città. Le ultime lampade emanavano una luce fioca, i pescatori illuminavano brevi tratti di mare ma le stelle in cielo brillavano di una luce nuova: le loro anime sarebbero state accolte nel firmamento e per sempre avrebbero trovato pace. 

Ultima modifica: 31 Maggio 2024