Gli angeli non guardano Palermo
Di Francesca Artale
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Un forte tuono squarciò il cielo.
«Si avvicina un temporale, mio padre avrebbe odiato questa giornata» dissi lasciandomi piegare le labbra da quel sorrisetto dolceamaro che Lisa conosceva benissimo.
Il suo conforto, la sua dolcezza, mi arrivarono custodite in quella breve carezza che mi riservò alla guancia prima di portare Francesco in lacrime alla macchina. Sapeva che avevo bisogno di tempo da solo con lui.
“È proprio come il nonno” mi trovai a pensare sfiorando il ricordo di mio padre che si chiudeva in camera sua quando c’era questo tempo, quando c’erano dei fuochi d’artificio, quando si apriva una bottiglia di spumante… Non era possibile fare un qualsiasi tipo di rumore che fosse simile a uno scoppio, la guerra lo aveva segnato nell’anima anche se non voleva ammetterlo. Non fino a quel momento, non fino a quando aveva deciso che non ne poteva più e si era congedato dalla vita ormai diversi anni prima lasciandomi con un diario e un vuoto incolmabile che non sapevo come riempire.
Il diario… Forse era arrivato il momento di sfogliarlo, forse era arrivato il momento di comprenderlo e perdonare il suo gesto.
Aprii la teca ed estrassi un vecchio quaderno ingiallito e consunto, il custode del cuore e della vita che fu di mio padre. Con mano tremante lo sfogliai e cominciai a leggere.
“8 aprile 1943. È la fine di tutto. Non mi rimane più niente. Ieri la mia intera vita è crollata sotto quelle maledette bombe e oggi una colata di cemento, un sudario, ha celato al mondo per sempre la verità. Rimane il silenzio assordante del dolore di noi sopravvissuti e l’eco di una sofferenza che in nessun universo merita di essere vissuta, di sensi di colpa che nessuno dovrebbe mai provare. Perché è la fine di tutta la mia famiglia, ma non della mia vita. Il cuore è lacerato, è ridotto in brandelli che sono rimasti sepolti sotto le macerie di quel rifugio che doveva proteggere i miei genitori e mia moglie. E invece, solo vuoto. Solo dolore. Solo menzogne. Non hanno il coraggio di ammettere le continue stragi… parlano di trenta morti, ma chi ci crede? Chi può crederci quando si sa cosa significa stare ore e ore stretti l’un l’latro, in centinaia, dentro un rifugio? Forse poteva funzionare i primi tempi ma non più ora, non dopo tre anni di bombardamenti e non dopo l’inferno in terra che abbiamo vissuto. Sono costretto al silenzio ma non posso più farmi andare bene questo schifo. Troverò un modo.”
“18 aprile 1943. Sono stanco, sono stanco di dover sottostare agli ordini dei miei superiori. Ormai lavoro qui da quasi tre anni e ho sentito, ho toccato con mano l’insofferenza crescente della gente contro il governo, bomba dopo bomba. Chiamata dopo chiamata, intercettazione dopo intercettazione, punizione dopo punizione la stabilità del Regime diminuisce giorno dopo giorno. Come si può essere fedeli a un Regime che ti ammazza e poi nasconde tutto sotto il tappeto? Come potersi fidare e come poter stare bene sotto il governo di chi chiude gli occhi e volta la faccia dall’altra parte mentre il suo popolo soffre? Dovevano fare il nostro bene, ci avrebbero protetti, e invece ci hanno sepolto sotto strati di detriti e cemento. Ma devo resistere, non posso farmi sopraffare dai miei pensieri e devo rimanere lucido. Devo lavorare in segreto così da poter assicurare giustizia alla mia famiglia e a tutte quelle povere anime intrappolate lì sotto con loro. Raccoglierò prove sufficienti di nascosto da tutti così da poter riaprire quella tomba comune che è diventata piazza Sett’Angeli e dare volti e nomi a quelle povere vittime.”
“2 maggio 1943. Col trasferimento dell’ufficio al Palazzo delle Poste sono riuscito a intercettare chi si è occupato del disastro di piazza Sett’Angeli. Non avrei dovuto usare gli strumenti dell’ufficio per questo, dovevo occuparmi dei dissidenti, di quelli che vogliono aiutare gli americani ad entrare, ma la tentazione è stata più forte di qualunque altra cosa. La sete di giustizia è più forte. Ho cercato di appuntare quanto più possibile e sono riuscito a evadere ai controlli aiutato dagli scatoloni e dalla confusione dei colleghi prima di uscire per l’ultima volta dal vecchio stabilimento. Forse con questi riuscirò nel mio intento.”
“15 giugno 1943. Non trovo più le trascrizioni che avevo fatto, forse è un segno. Che debba arrendermi alla tragica realtà?”
“30 luglio 1943. Ci sono gli alleati qui, ci sono i carnefici dei nostri familiari a girare fra le strade della città che hanno sventrato e si atteggiano a salvatori del mondo. Li guardo e penso che le loro mani sono sporche di sangue. Poi guardo le mie e penso che anche le mie lo sono. Per tutte le segnalazioni che ho fatto e che hanno portato a torture e a sparizioni, per tutte le persone che avrei potuto aiutare e che invece ho ignorato preso dai miei doveri di operatore dell’Ufficio Speciale Riservato. Mi chiedo se davvero ne vale la pena, se io sia meglio di loro, se la fine dei miei genitori sia più importante di quella di altre mille persone.
Con gli americani il nostro ufficio è stato smantellato, ho le mani legate.
Tutti rimarranno sepolti fra il terrore e le macerie all’ombra della Cattedrale.
Non valgo niente.”
Dieci anni di silenzio per poi trovare le ultime righe della sua esistenza: “7 aprile 1953. Mi dispiace figliolo, non posso più continuare così. I volti delle persone che hanno subìto torture e chissà cos’altro per colpa mia continuano a tormentarmi. Mi guardano mentre sono a messa, li sento accanto a me quando guardo Francesco sorridermi dalla culla. Le vite spezzate di tutti coloro che ho conosciuto mi perseguitano e il tempo che è stato concesso a me so che doveva essere loro. Sono dalla parte sbagliata dell’esistenza. Rimpiango il mio tempo su questa Terra, potevo far del bene e invece la storia ci ha insegnato che ero dalla parte sbagliata. Mi dispiace solo non essere riuscito a salvare le anime dei tuoi nonni e di tua mamma. Che Dio mi perdoni, che tu possa perdonarmi. Sei stata l’unica luce nel buio pesto che è stata la mia vita.”
Chiusi il diario e asciugai le lacrime che silenziosamente avevano rigato le mie guance. Si confondevano con le gocce che avevano iniziato a venir giù dal cielo.
«Spero che tu possa riposare in pace adesso che sei accanto ai nonni e alla mamma, non abbiamo mai smesso di lottare per voi.» Poggiai un delicato bacio sull’unica foto che avevo dei miei genitori e la infilai fra le pagine del quaderno. Aprii la teca che stava sopra la tomba e richiusi tutto a doppia mandata.
Il tempo era passato ma Palermo non aveva mai dimenticato quello che era successo quel giorno del 1943 e quell’impiegato dell’Ufficio Speciale Riservato di Palermo, profondamente tormentato dalla sua stessa esistenza, dalla sua stessa sopravvivenza, avrebbe forse finalmente trovato la pace in una di quelle giornate piovose che tanto odiava dopo anni di silenzioso dolore.
Ultima modifica: 16 Aprile 2025