Il cavaliere perduto
di Gaia Vitanza
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Si deve prestare molta attenzione quando si decide di immergersi in faccende estremamente noiose: si corre il rischio di perdersi tra parole vuote, conflitti evitabili e minuti sprecati. Che dico? Minuti? Ore, giorni, anni! E poi… Puff! Persi per sempre.
Una tragedia, questa, che si insinua silenziosamente nella vita di molti adulti, cogliendoli impreparati. Forse non viene detto loro che chi sta con la testa tra le nuvole aspira ad essere un magnifico albatro. A stare con i piedi ben piantati per terra, invece, si finisce per diventare lapidi: questo i bambini lo sanno bene, per questo non fanno che saltare sui letti ed arrampicarsi sugli alberi.
Successe così a Ferdinando: mentre aveva la testa conficcata tra le scartoffie, pian piano il mondo si fece più piccolo e il tempo sbiadito. Prima dimenticò il palazzo, poi la consorte Isabella, gli affari di stato, la postura, il pranzo, dimenticò persino di fare pipì! Se ne stava lì, in un mondo a parte, con le mani ad artiglio tra i capelli a leggere e rileggere la missiva. Era così intento ad occuparsi dell’alterco tra Antonio Bernardo De Bardasci e la Contessa di Sclafani che non si accorse di stare scivolando. Le palpebre stavano cedendo al sonno, la guancia pian piano si spalmava sulla mano come marmellata su un toast e i pensieri viscosi si accasciavano sulla carta.
Avete mai provato a guardare le parole di un bel libro strabuzzando gli occhi e accavallando le pupille finché le lettere non si mescolano tutte creando un alfabeto segreto che sia solo vostro? Oppure avete mai ripetuto il vostro nome così tante volte da risultarvi estraneo, come se fosse un’accozzaglia di suoni che non sembra affatto il vostro nome? Ferdinando si ritrovò in un vortice di parole e, man mano che vi scivolava dentro, si rendeva conto che queste perdevano significato e divenivano solo frasi confuse, segni d’inchiostro, macchie indecifrabili. La paura durò solo un istante, poi Ferdinando fu inghiottito.
Cinquecentotrentuno anni dopo, fu come svegliarsi da un lunghissimo sonno, di quelli che ti restano appiccicati addosso, tra suoni ovattati e immagini incomprensibili. Fu la luce di un neon a ridestarlo di colpo dal suo interminabile pisolino. Si sentiva strano, come incollato alla pagina. Si sgranchì come possibile, scricchiolando come carta straccia; poi, finalmente, riuscì a mettere a fuoco l’enorme figura che gli si stagliava dinnanzi: un bambino di meno di 10 anni, dalla pelle scura e gli occhi del colore del miele, quando lo fai caramellare. Entrambi sobbalzarono, l’espressione di uno era quella dell’altro: uno vedeva un giovanissimo Moro alto quanto un palazzo, l’altro un cavaliere di carta che si contorceva su una pagina ingiallita.
«Ah, tu! Birbante colosso! Identificati!»
«Chi sei tu, origami parlante?»
«Non osare chiamarmi “origami”, qualsiasi cosa significhi nella tua lingua blasfema!»
«Guarda che è una parola giapp-»
«Sono dunque a Granada?» lo interruppe il cavaliere.
«Sei a Palermo… Brutta nottata?»
«Non ne hai idea, stavo occupandomi di affari importanti e poi credo di essermi addormentato. Palermo, dici? Dunque, sei un mio suddito, giovane… Come hai detto che ti chiami?»
«Iqbal.» disse il bambino con un certo orgoglio. Ferdinando lo guardò con espressione vacua.
«Poco importa, ti chiamerò… Juan.»
«Ehi! Io mi chiamo Iqbal! Vedi di ricordartene, è il nome di un eroe!» lo rimproverò.
«Eroe!?» disse con tono isterico. «E sentiamo, giovane Juan, cos’ha conquistato questo “eroe”?»
«Un sacchissimo di cose: dignità, diritti, libertà.»
«Luoghi mai uditi, cittadine irrilevanti. Un monarca dilettante, direi.»
«Lui non era un re, cuciva tappeti, e tutto ciò che ha conquistato lo ha donato ad altri.»
Ferdinando si lasciò andare ad una fragorosa risata di scherno e Iqbal lo fulminò con lo sguardo. Normalmente, Ferdinando avrebbe ignorato il rimprovero, ma il bambino era più alto di lui di molte spanne.
«Beh, Iqbal,» si sforzò di pronunciare il suo nome, «quanto ho dormito?»
«È quasi ora di pranzo.»
«Di che giorno?»
«Martedì.»
«Mese?» si fece sospettoso.
«Aprile!»
«Anno?» trattenne il fiato.
«2024.»
Il cavaliere trasalì. Com’era possibile? Eppure, tutto ciò aveva senso: Iqbal, le luci abbaglianti, gli scaffali in metallo che lo circondavano e persino il suo essersi fatto carta. Un grande quesito ora lo attanagliava: si eran tutti dimenticati di lui? Provò a ricomporsi e si sollevò dalla pagina, fiero sul suo cavallo immobile, gonfiò il petto e rese la sua voce più profonda.
«Iqbal, ti dirò io cos’è un vero eroe.» pausa drammatica. «Io sono Ferdinando, re d’Aragona, re di Sicilia, re consorte di Castiglia, re di Valencia, Sardegna, Maiorca e titolare di Corsica, conte di Barcellona e delle contee catalane.»
Iqbal non sembrava affatto impressionato da quell’elenco, forse perché la sua migliore amica argentina si chiamava Pamela Aisha Cecilia Celeste Garcia Alvarez e non se n’era mai fatta un vanto.
Ferdinando allora continuò, con crescente orgoglio: «La mia vita è stata costellata da successi. A 7 anni combinarono il mio matrimonio con mia cugina Isabella.»
«Ma è terribile!»
«A 9 anni divenni luogotenente della Catalogna! Dovetti imparare tutto sulle strategie belliche.»
«E ti importava?»
«A 16 anni morì mia madre ed io divenni re indiscusso della Sicilia. Sposai Isabella e insieme conquistammo il mondo, da Granada alle isole delle Indie oltre il Gange. Una vita fatta di guerre, di ferma violenza, di trionfi!»
«Mi dispiace davvero…» disse Iqbal con ogni sincerità possibile. Si allontanò in silenzio e riapparve porgendo a Ferdinando un orsetto di pezza. «Penso che tu ne abbia più bisogno di me.»
«Non voglio accettare un dono da un Moro!»
«E da un amico, invece?» Ferdinando rimase di stucco, ma poi permise a sé stesso di sorridere. E risero, insieme, come due bambini, finché Iqbal non si fece serio e gli chiese: «Perché, da quando hai aperto gli occhi, non hai fatto altro che provare a impressionarmi?»
Ferdinando sospirò e ammise: «Perché sono di carta e, senza che qualcuno mi ricordi, non sono più niente.»
«Io mi ricorderò di te. Forse, però, non come speri tu.»
«Iqbal! Che ci fai nel laboratorio di restauro? Ti ho detto mille volte che non devi allontanarti dai tuoi compagni!» sbottò la maestra trafelata, spalancando la porta.
Iqbal la raggiunse. Alle sue spalle, l’orsetto di pezza giaceva accanto ad una pagina aperta. Accennò un saluto, con il suo bel sorriso. «È stato bello ridere insieme!».
La maestra si guardò attorno perplessa e chiese: «Con chi stavi parlando?».
«Con un uomo tanto tanto triste.»
Ultima modifica: 31 Maggio 2024