Il custode innamorato

di Joseph Raimondo

Scopri il documento collegato

Esisteva un uomo in Selinunte, che tanto amava le sue antichità da divenir suo Custode. Don Giovanni era il suo nome, già Caporale alla Torre di Polluce, uomo rispettato per la tempra morale delle sue convinzioni. Questo suo amore per l’antico era però eguagliato dal suo opposto sentimento, dal disprezzo per coloro che mancavano di onorare il fulcro della sua passione. Molti furono gli abusi all’illustre passato cui dovette far fronte, perché molte erano le genti che lo calpestavano col peso della loro ignoranza. V’era in particolare un pastore, che più degli altri lo irritava, per la costanza della sua testardaggine. Ogni dì quest’uomo invadeva quelle rovine, lasciando pascere le sue bestie che ne distruggevano e insozzavano quelle sacre pietre; ed ogni dì il Custode era costretto a farlo andar via, grazie alla persuasione del suo fucile.  

In questa pittoresca e bucolica commedia, Don Giovanni lentamente esauriva la pazienza e sapeva che sarebbe arrivato il punto di rottura. Serbava comunque una speranza per risolvere tal faccenda; essa s’incarnava nel giovane figlio dell’uomo che tanto odiava per quelle sue scellerate invasioni col pascolo tra le rovine della civiltà. Pensava, infatti, che allevando il figlio all’amore dell’antico, questi avrebbe interceduto presso il recidivo genitore, e fargli mutare pensiero. In quella sua Torre, Don Giovanni istruiva il ragazzo come più poteva, tentando di infondergli quel suo punto di vista accecato da tanta passione; e per render più tangibile questo amore al giovane, teneva in una teca alcuni frammenti rinvenuti casualmente durante i suoi giri di custodia. Uno di questi in particolare era il suo preferito e lo mostrava con orgoglio: un pezzo di colonna di uno dei templi, lungo tre palmi e largo due pugni, su cui si potevano ancora ammirare le scanalature che solcavano la sua grande sede principale.  

Ma per quanto il giovane avesse imparato ad apprezzare e rispettare le rovine di quell’alta civiltà, nulla faceva per impedire al padre di proseguire il suo lavoro, perché proprio da quello dipendeva la sazietà del suo stomaco. Fu per tale motivo che Don Giovanni risolse per por termine a questa estenuante ostilità col pastore. Invitò una sera quel suo nemico a riconciliarsi con lui per mezzo di una lauta cena, annaffiata d’abbondante vino. Il pastore, giulivo per il pasto gratuito promessogli, si presentò da Don Giovanni con sguardo di trionfo, cosa che il Custode non poté fare a meno di non notare. Si comportò da perfetto ospite e solo dopo il secondo fiasco, diede sfogo alle sue lezioni sull’antico, esattamente come faceva col di lui figliuolo. Ma il pastore non mancava di mostrare tutta la sua derisione dell’argomento cingendola con risate di scherno. Don Giovanni raggiunse il parossismo della sopportazione, così, con evidente affettata e mal dissimulata calma, si alzò per prender dalla teca il suo pezzo preferito. Presentatolo con le solite parole d’elogio, promise al pastore che avrebbe cambiato idea se solo avesse visto da dove proveniva il reperto che in mano teneva, e che se ciò in lui non fosse avvenuto, gli avrebbe regalato i rimanenti fiaschi di vino che tanto aveva apprezzato durante il convito, insieme alla promessa di rinunciare di scacciarlo ogni giorno con le sue bestie, e lasciarlo pascolare in pace.  

Il pastore, che nulla perdeva in così posta proposta, accettò di buon animo, senza però rendersi conto che il rossore delle sue guance avvinazzate non raggiungeva il colore del sangue che il Custode aveva negli occhi. Presa dunque una lanterna cieca, si avviarono entrambi tra quelle dormienti memorie antiche. Inoltratisi così tra incolte vegetazioni e pietre sparse, Don Giovanni indicò al pastore un punto imprecisato, esortandolo a guardare. L’incauto e ignaro uomo sporse in avanti il capo, ma la vista annebbiata dai fumi alcolici non gli rivelava nulla d’inconsueto; così, postosi un paio di passi innanzi a Don Giovanni, continuò a guardare verso quel poco illuminato dalla lanterna, e come niente vide in quell’istante, niente avrebbe più visto. Il Custode sferrò il suo colpo mortale alla nuca del disgraziato. L’atto fu rapido, violento e quasi senza rumore. Don Giovanni osservava il cadavere del suo nemico, e le sue mani ricoperte dagli schizzi di quel sangue infame. L’unico suo dispiacere fu solo quello di aver sacrificato per una così alta causa, quel reperto archeologico che tanto amava, e che adesso, per via dell’urto, si ritrovava spezzato a metà. Non gli fu possibile nemmeno ricomporre l’arma del delitto, perché chissà ove era balzata quella parte colpevole. Così s’apprestò subito a mutare i suoi pensieri, trascinando via la vittima del suo furore.  

Tre i mesi trascorsi dalla fatidica notte, nei quali Don Giovanni non più assiduamente svolgeva il suo ruolo di Custode; anzi sembrava avesse scoperto un’altra passione, l’agricoltura. Così in un punto appartato in quella distesa di rovine, creò il suo piccolo giardinetto, dove vi lavorava compiaciuto e senza rimorsi. Il giovane figlio del pastore non veniva più a trovarlo per istruirsi; la misteriosa scomparsa di suo padre gli dava ben più grevi pensieri a cui rivolgersi, avendo adesso in carico anche la responsabilità di una madre e due piccoli fratelli. E infatti aveva preso in mano l’attività di famiglia, portando le sue pecore lontane dagli occhi della Torre di Polluce. Fu proprio in questa zona appartata, che rinvenne ciò che ben conosceva; tra un folto arbusto di rovi scorse un oggetto così familiare che non poté fare a meno di recuperalo. Era la metà del reperto che il Custode non era riuscito a ritrovare la notte dell’omicidio.  

Tutto si svelò nella mente del pastorello, tutto comprese all’istante, la scomparsa di suo padre, il frammento spezzato che tanto ammirava il suo antico mentore, e soprattutto, quella nuova passione di Don Giovanni per l’aratura che così palesemente contrastava con ogni pensiero da lui espresso sul rispetto per le antichità. Doveva reclamare vendetta, e ogni immagine di essa era terribile e piena di sangue. Ebbe però un sussulto al cuore, era la sua coscienza. Provava pietà verso sua madre, perché una volta compiuta giustizia, sarebbe stato costretto a lasciare la povera donna sola col fardello dei suoi fratelli. Il rimorso fu più forte della bramosia di sangue, ma pur doveva far provare al Custode un dolore, se non simile al suo almeno di pari intensità per lui. Volse gli occhi intorno a ciò che lo circondava e decise che avrebbe colpito Don Giovanni dritto al cuore del suo amore, avrebbe distrutto l’unica sua passione, gliel’avrebbe portata via per sempre e fatto in modo che il suo nome venisse macchiato. Scrisse una lettera anonima che denunciava l’orticello di Don Giovanni e la sua devastazione dell’antichità.  

Il non più Custode venne condotto via piangente, e con tal disonore che nessuno si commosse per lui. Le colture sfamate col corpo di colui che Don Giovanni aveva riconciliato con l’antico furono così cancellate, e del Caporale della Torre di Polluce non si ebbero più notizie. Il pastore però non venne ritrovato, sepolto coscienziosamente ad una profondità poco consona per una tomba. Solo una cosa si ergeva a rammentare una storia che mai fu udita, un frammento di colonna lungo tre palmi e largo due pugni, le cui due metà spezzate erano ricongiunte, ora innalzato a cippo del bivio del destino degli uomini. Il passato si fuse col passato, e più nulla se ne seppe. 

Ultima modifica: 05 Luglio 2024