Iniurias Accipiendo Sed Non Gratias Agendo  

Di Eloisia Tiziana Sparacino 

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Don Pino di Blasi non trovava requie. Era ormai confinato a letto da giorni e giorni, in quella squallida infermeria del convento di Santa Maria di Gesù, nel letto sfatto, dolorante e febbricitante – ma soprattutto furioso.  

A ripensare alle ultime settimane gli doleva la testa, e ancora non si capacitava di quello che gli era capitato, come Domineddio aveva voluto, fra capo e collo. Aveva chiesto da scrivere, doveva appuntarsi tutti i dettagli, fin fino le minuzie!, dell’incredibile torto, le ingiustizie che aveva dovuto subire da quel vigliacco di Don Ciccio Mastropaolo, infame ladro. Avrebbe piantato i chiodi a Gesù Cristo per una moneta di rame, quello!  

Ma Domineddio gli era testimone e lo avrebbe trascinato al Tribunale della Regia Monarchia perché gli venissero restituiti Giustizia e Onore! Il buon nome dei Di Blasi era sempre stato onorato e rispettato a San Pietro Sopra Patti.  

L’inchiostro macchiava il foglio, la piuma grattava nella frenesia scomposta con cui il sacerdote cercava di mettere giù gli appunti. 

Dunque, era la sera del…. Giovedì? No, venerdì, perché aveva cenato di magro. Venerdì 27 luglio XII Indizione, Anno Domini 1703. Ricorda Pino, ricorda e scrivi. 

Era una serata ventilata, finalmente si respirava dopo l’afa della giornata. Dopo cena s’era tirato una sedia fuori, e si era seduto sbracciato e scalzo in circolo con i vicini, per chiacchierare al fresco.  

Sì, ecco, doveva appuntarsi i nomi dei presenti, testimoni – sì, testimoni tutti! di quel che era successo. Allora: c’era Placido accanto a Don Pietro Messina, mastro Tripoli con la moglie, Francuzzo Speranza e basta. No, no, c’era anche donna Rosina, la vedova, che si soffiava col ventaglio. Era una serata così tranquilla, mannaggia all’inferno e ai suoi diavoli!  

S’era fatto tardi, dunque erano quasi le due di notte, e Don Pino stava per andarsene a letto quando aveva visto giungere un gruppetto di uomini. In tutto erano cinque armati di scopette, capeggiati da quella serpe di Don Mastropaolo, Visitatore di Giustizia di quelle terre.  

Voleva scrivere i nomi degli altri sgherri ma non li sapeva, stette a spremersi le meningi per cinque minuti buoni, ma niente: uno sfrego sfogò sul foglio la frustrazione del sacerdote.  

Li conosceva solo di vista, erano gentaglia sicuramente di Montalbano; si erano presentati cercando di lui, lui!, un povero cristiano timorato di Dio, sacerdote rispettato che si faceva i fatti suoi davanti l’uscio di casa. 

Il Mastropaolo lo aveva davanti gli occhi: si era fatto avanti e con impudenza gli aveva spiegato che era venuto in qualità di Visitatore di Giustizia per condurlo ad un interrogatorio. Don Pino stupito gli aveva chiesto da chi era partito l’ordine, e quello aveva risposto con tono ancor più insolente che così aveva deciso l’Arcivescovo di Messina (“ah, buono quell…”, aveva pensato il sacerdote, aggiungendo mentalmente un aggettivo molto colorito). 

Inutile era stato spiegare che lui era un intoccabile, un mastro notaro del delegato locale del Tribunale della Regia Monarchia: ad un cenno del loro capo, senza una parola i quattro della scorta lo avevano afferrato e trascinato via, senza dargli il tempo di obiettare, né di mettersi l’abito talare, né le scarpe e le calze, neanche di tirarsi l’uscio di casa. 

Le mani cominciarono a tremare al ricordo, la scrittura divenne incerta.  

Don Pino dovette tirare due profondi sospiri per poter continuare a scrivere. “Deve essere messo tutto a verbale perché queste infamie non devono passare!” 

Don Pino annotò, sottolineandolo due volte: “Ho rinfacciato che l’arresto era in realtà dovuto al debito di 16 onze che avevo cercato di riscuotere poco tempo prima dal Mastropaolo, e che questa era dunque una rappresaglia per non pagare il dovuto. Gli sberleffi e l’arroganza del debitore, se possibile, aumentarono”. 

Il peggio doveva venire. Veloce correva la penna sul foglio, i punti si susseguivano elencati malamente, aggiunti, corretti e abbreviati per la foga. 

Sono stato trascinato malamente fino a casa di quel fetente di don Gallo, fiscale della Corte Spirituale, che mi ha affidato ancora al Mastropaolo; mi han messo su un ciuco e via per Montalbano, mentre inutilmente chiamavo aiuto; ah, è allora che ho visto fra i cespugli Peppe Rutino, testimone di come mi spintonavano ma si è nascosto, vile; lo appunto qui. I delinquenti mi hanno fatto scendere dall’asino per tirarmi a forza, mi volevano attaccare per il collo come una bestia! Io, un Di Blasi! 

Ma la Vergine mi ha dato la forza: li ho spinti a terra, sono scappato per il bosco e ho sentito tre colpi di scopetta alle mie spalle (“Tre! tre colpi! Mi volevano ammazzare, maledetti!” Vergine e Madre, non mi abbandonate!)  

Ma Domineddio mi è stato padre e mi ha protetto fino alla chiesa della Santissima Annunciata, dove vive quell’eremita di fra Bastiano. Dunque, scrivo Bastiano. E scrivo pure di Placido la Bua –  devono sapere tutti che mentre io ero rifugiato in chiesa, a piangere e a rendere grazie a Dio, alla Madonna, ai Santi e a tutti i nove cori angelici, l’illustrissimo signor mastro notaro della Corte Spirituale, con la scusa di una perquisizione ed inventario, a casa mia si fotteva 150 libbre di seta cruda, della qualità più fine. Ladro! Ladro! Ladro! 

E quegli uomini senza dignità né rispetto di Domineddio mi hanno trovato, infine. Hanno scoperchiato il tetto della sacrestia per acchiapparmi, ma io ero rifugiato in chiesa ed ero intoccabile. Oh! Io ingenuo! Mi hanno assediato per quattro giorni e quando hanno inteso che non sarei mai uscito dalla Santissima Annunciata, piuttosto ci morivo dentro, su ordine di Don Mastropaolo hanno profanato il sacro diritto di asilo della Chiesa e mi hanno trascinato di peso fuori. Uomini senza Dio!  

Mi hanno messo su una mula pulciosa, che scalciava e scrollava come avesse il demonio dentro. Non ci ho fatto dieci passi che mi hanno fatto scendere… 

Don Pino rabbrividì, a ricordare la scena: vivo per miracolo. Miracolo della Santa Vergine, certo, che lo aveva assistito per tutti quei giorni. La mula s’era imbizzarrita, e scalciando lo aveva colpito dritto alle reni tramortendolo. Riportato in chiesa, rotto e delirante, il sacerdote aveva chiesto il viatico, per degnamente prepararsi ad incontrare il Creatore, e già sentiva i cori celesti che lo chiamavano. 

Da lì tutto si complicava nella memoria: don Giovanni, il sacerdote che al suo capezzale lo convinceva a firmare la cessione al Mastropaolo di 46 libbre della seta rubata a casa sua (“Per evitare altri strapazzi”, diceva!) e le altre cento libbre? Mai più viste! Il trasporto a Santa Maria del Gesù era stato un calvario, su una sedia perché non poteva muoversi diversamente, sentendo tutte le buche di quella stramaledetta strada… Cristo ti offro la mia sofferenza, umilmente.  

Don Pino riguardò il foglio spiegazzato e stentò a riconoscervi la sua grafia, solitamente elegante e raffinata. Avrebbe ricopiato e riorganizzato meglio la sua memoria, in fondo era un mastro notaro del Tribunale della Regia Monarchia. C’era la violazione del diritto di asilo ecclesiastico, l’offesa della giurisdizione del Tribunale della Monarchia, le percosse, l’estorsione… Avrebbe steso un fiero documento, appena recuperata la salute, Avrebbe raccontato di come era stato malamente mazziato e derubato. Un Iniurias Accipiendo  sed non Gratias Agendo. Ecco, lo avrebbe intitolato così!  

Domineddio proteggimi sempre. 

Ultima modifica: 08 Maggio 2025